Vaticano
Il cardinale Coppa compie novanta anni. Quando andavo al concilio di nascosto
L'Osservatore Romano
(Nicola Gori) Piemontese, latinista, studioso di sant’Ambrogio, a lungo in servizio nella Segreteria di Stato, ha lavorato con sette Pontefici. Già nunzio apostolico in Cecoslovacchia e poi nella Repubblica Ceca e in Slovacchia, il cardinale Giovanni Coppa compie novant’anni il 9 novembre. Nell’occasione — alla vigilia della messa di ringraziamento che celebra nel pomeriggio di martedì 10, all’altare della tomba di Pietro nelle Grotte vaticane — il porporato si racconta in questa intervista al nostro giornale.
L'Osservatore Romano

Lei è un cultore di sant’Ambrogio. Cosa l’ha colpita di questo padre della Chiesa?
A dire il vero non sono nato accademicamente come patrologo. Mi sono laureato in storia dell’arte con una tesi sull’iconografia della Trinità. La mia preparazione di patristica non aveva niente di specifico. Tutto è avvenuto dopo, quando già lavoravo in Segreteria di Stato. Un giorno ho telefonato a monsignor Pietro Rossano, che era direttore della collana dei classici della religione dell’Utet, per esprimergli il desiderio di scrivere qualcosa su Ambrogio. Rossano accettò la mia proposta, anche se c’era già un altro candidato per la voce sul santo vescovo in quella collana. Avevo letto molto su di lui, ma non conoscevo tutte le sue opere. E quella è stata proprio l’occasione per apprezzarle e approfondirle. Ha uno stile speciale, certo a tratti difficile, ma profondissimo. Ambrogio è senza dubbio uno dei santi che mi piacciono di più. Naturalmente avevo letto anche le opere di Agostino, Gregori, Bernardo. Ma Ambrogio mi ha sempre attirato in modo particolare.
È ancora attuale il suo messaggio?
Senza dubbio è molto moderno. Ambrogio è un cultore dello stile: ne aveva uno che è inconfondibile. Per me leggerlo è sempre una ventata di novità, di ricchezza, di cuore. Ha delle sferzate tremende contro il lusso: un’accusa terribilmente sincera e moderna, perché riguarda il tema dello sfruttamento delle cose e degli altri a proprio vantaggio. Basti pensare all’Esamerone, dove si ispira anche alle opere di Plinio il Vecchio, di Basilio e dei padri cappadoci. Descrive tutta la creazione con freschezza e senso di umorismo. Parla della famiglia e del rispetto degli anziani. E in questo è molto attuale se si pensa che anche Papa Francesco insiste in modo straordinario sull’argomento. Ricordo che quando ero nunzio apostolico a Praga, in un incontro con la gioventù studentesca ho parlato proprio dell’Esamerone, spiegando che Ambrogio parla anche di argomenti delicati, come la sessualità umana, con libertà e con tanto rispetto. Presenta tutto sotto la luce di Dio. E ricorda che Dio ha creato l’uomo a propria immagine e somiglianza perché così aveva finalmente qualcuno a cui perdonare i peccati. Ascoltando queste cose gli studenti si entusiasmarono, a conferma che queste cose colpiscono anche l’uomo di oggi. Non c’è niente di untuoso, di clericale. È semplicemente la vita e Ambrogio l’ha interpretata in un modo stupendo.
Cosa ricorda degli anni passati al servizio della Curia romana?
Mi riferirono che Pio xii aveva stima di me, perché i testi latini che ero incaricato di preparare risultavano sempre ampi e approfonditi. Le mie più belle esperienze però sono state con Giovanni xxiii, che mi voleva veramente bene. Ho avuto varie udienze con lui. Mi sono rimaste impresse la sua grande umanità e la sua attenzione ai dettagli. Una volta il suo segretario monsignor Loris Capovilla, oggi cardinale, mi mandò a nome del Papa un pacchetto con dentro un rosario, una corona d’oro all’interno di un’altra custodia d’oro. Mi disse che il Papa era grato per il mio lavoro. A quel tempo le cose da fare non mancavano certamente. Mi piaceva ripetere: Secretaria status rebus Latinis et de quibus aliis. Lavoravo in Segreteria di Stato con monsignor Angelo Dell’Acqua, allora sostituto, che aveva molta fiducia in me. Se c’era da fare qualcosa rapidamente, mi chiamava e mi affidava l’incarico. Una volta ho preparato un testo che doveva servire per un’udienza di Paolo vi all’Azione Cattolica. Dell’Acqua lo mandò a Papa Montini, che nel frattempo aveva preparato il suo discorso. Ebbene, quando lo lesse, lasciò da parte il suo scritto e utilizzò il mio. Paolo vi era un grande uomo, di una finezza unica. Ne conservo due autografi: uno in risposta all’invio di un libro di sant’Ambrogio e uno speditomi per la morte di mio padre.
Che ricordi ha del concilio Vaticano ii?
I primi tempi, al mattino, anziché andare subito in ufficio, mi fermavo nella basilica vaticana a seguire i lavori conciliari. Quando se ne sono accorti in Segreteria di Stato non ho più potuto farlo, perché monsignor Dell’Acqua mi faceva trovare del lavoro da sbrigare già nel cassetto appena arrivavo. Però ricordo di essere stato presente in alcuni momenti importanti, soprattutto quando i padri conciliari di Francia e Germania impressero un’apertura inaspettata al mondo.
Cosa l’ha colpita di più nel suo servizio come nunzio apostolico a Praga?
Giovanni Paolo ii mi ordinò vescovo, pur sapendo che avevo avuto dei problemi di salute agli occhi, e nel 1990 mi nominò nunzio apostolico in Cecoslovacchia. È stato il più bel regalo che mi potesse fare, anche se conoscevo poco quella realtà e soprattutto non sapevo nemmeno una parola della lingua. A distanza di anni riconosco che se non avessi vissuto l’esperienza pastorale di Praga mi sarei sentito dimezzato come vescovo. Ho affrontato giorni di grande fatica per studiare la lingua. Le emozioni sono state tante. Ricordo del mio arrivo in un paese della Moravia, accolto da una folla di fedeli. Quando entrai in chiesa il parroco mi presentò al popolo dicendo che finalmente potevano incontrare il rappresentante del Papa e si mise a piangere. Dopo quarant’anni, avere la visita del rappresentate del Papa era un evento storico. Certamente è stato un privilegio che non ho cercato. Ricordo anche che tenevo le meditazioni sulla Bibbia nella chiesa praghese di Santa Maria di Týn. Venivano molti professori della vicina università. Avevano sete della parola di Dio, perché non l’avevano più sentita durante le proibizioni del regime. L’esperienza di vedere la Chiesa uscire dalle catacombe è stata una grande grazia, perché ho potuto dedicarmi a persone che avevano sete e fame della parola di Dio.
Un bilancio dei suoi novanta anni di vita?
In tutte le mie esperienze di studio non ho mai tralasciato la dimensione pastorale. Ho sempre lavorato nelle parrocchie. Anche a Praga non avevo una domenica libera, specialmente in estate, perché mi chiamavano in più luoghi per celebrare. Ripeto: se non avessi fatto quell’esperienza, il mio sacerdozio non sarebbe stato completo. Questo per me è il momento di ringraziare Dio per tutto ciò che mi ha fatto sperimentare in questi anni.
L'Osservatore Romano, 10 novembre 2015.