L'Osservatore Romano
(Riccardo Burigana) La costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei verbum è una colonna del Vaticano II, per il suo contenuto e per l’iter che ha portato alla sua promulgazione il 18 novembre 1965, cinquant’anni fa, poche settimane prima della conclusione dell’assemblea. Ripercorrere il lungo e articolato processo di redazione del documento significa entrare nel cuore del concilio, toccando alcuni fondamentali nodi teologici: la centralità di Cristo nella rivelazione, il rapporto tra magistero e tradizione, la presenza della Scrittura nella vita quotidiana delle comunità locali, la dimensione ecumenica dell’annuncio del Vangelo.Su questi temi i padri conciliari s’interrogarono a lungo, offrendo risposte non univoche. Ripercorrere la redazione della Dei verbum è quindi importante anche per comprendere orientamenti e scelte della recezione del concilio. Molti temi affrontati durante la redazione del testo giocarono infatti un ruolo non secondario nella processo di rinnovamento della Chiesa.
Di un documento che affrontasse il tema della rivelazione nella prospettiva di un ripensamento della presenza della Bibbia nella vita della Chiesa si era cominciato a parlare all’indomani dell’indizione del concilio ecumenico da parte di Giovanni XXIII. In diverse circostanze il Pontefice aveva posto l’accento dell’importanza della Scrittura nella testimonianza cristiana. Non era certo un tema nuovo per il magistero pontificio, ma con Papa Giovanni assumeva un valore del tutto particolare alla luce non solo dell’indizione del concilio, ma soprattutto del contesto più generale del cristianesimo, dove era in corso un ampio dibattito sulla natura della rivelazione e sull’autorità della Scrittura nella formulazione della dottrina.
Di tutto questo dibattito — al quale la Chiesa cattolica prendeva parte con una pluralità di posizioni già emerse negli ultimi anni del pontificato di Pio XII — si dovette tener conto nella fase preparatoria del Vaticano II, durante la quale gli schemi sulla rivelazione e sulla Scrittura sembravano rispondere a due tipi di istanze. Da una parte emergeva la preoccupazione per la valenza ecumenica di questo dibattito, tanto da ribadire le più recenti formulazioni dogmatiche come se fossero dei limiti invalicabili, oltre i quali c’era solo l’errore. Dall’altra si avvertiva la volontà di esporre in forma positiva e biblica la tradizione plurisecolare della Chiesa cattolica, in modo da uscire da una stagione apologetica ma senza che questo significasse il venire meno all’identità della Chiesa stessa.
Queste posizioni — che tra il 1960 e il 1962 ispirarono la redazione di una pluralità di testi dal De fontibus revelationis e dal De deposito fidei pure custodiendo della Commissione teologica al De verbo Dei del Segretariato per l’unità dei cristiani, solo per citare i più organici — rinviavano a un dibattito molto più ampio che coinvolgeva ambienti cattolici, così come quelli di molte altre Chiese e comunità cristiane, in un confronto dal quale emergevano soluzioni che sembravano alternative e inconciliabili.
In questo clima l’11 ottobre 1962 si aprì il Vaticano II, e sin dalle prime battute dei lavori venne discusso il De fontibus revelationis: il dibattito portò alla luce molte posizioni aprendo, soprattutto dopo le decisioni di Giovanni XXIII in merito allo schema, prospettive come il recupero della Scrittura e delle sue riletture nei secoli tra le fonti privilegiate per la redazione del testo, che divennero centrali nel prosieguo dei lavori conciliari. Per questo le vicende che portarono alla promulgazione della Dei verbum — nelle quali fondamentale fu il ruolo di Paolo VI per giungere all’approvazione del documento — sono importanti per la comprensione del Vaticano II, al di là delle stesse formulazioni finali, che pure affrontavano in termini innovativi alcune questioni; tra queste, almeno due vanno ricordate, soprattutto per l’impatto che ebbero nella recezione del concilio.
La prima riguarda la raccomandazione al ricorso alla Scrittura nella vita quotidiana della Chiesa, dalla riflessione teologica alla catechesi e fino all’omiletica. Con questa formulazione — peraltro già ampiamente condivisa in concilio ben prima della promulgazione della costituzione, al punto da far immaginare un processo di recezione del documento ancora in fase di elaborazione — si aprivano orizzonti nuovi.
Per secoli venerata ma poco frequentata, la Bibbia tornava così a essere compagna fedele nella vita cristiana. Insomma, la Scrittura non era semplicemente la “stampella” alla quale appoggiarsi nelle formulazioni dogmatiche, ma tornava a essere la fonte dalla quale ricevere «acqua viva» per l’annuncio e per la missione della Chiesa, così come in tante occasioni è stato ripetuto, con accenti diversi, da Paolo VI e dai suoi successori. Senza naturalmente dimenticare l’assemblea sinodale del 2008 sulla Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa e l’esortazione apostolica Verbum domini di Benedetto XVI pubblicata nel 2010.
La seconda questione tocca la definizione delle nuove forme di partecipazione della Chiesa cattolica al movimento ecumenico. Infatti, accanto al decreto Unitatis redintegratio sui principi cattolici dell’ecumenismo, la costituzione sulla divina rivelazione si presentava come un testo in grado di far comprendere le peculiarità della dottrina cattolica, sollecitando una traduzione interconfessionale della Scrittura in lingua materna. Questo invito della Dei verbum venne ripreso nei primi anni della recezione del Vaticano II, portando, dopo decenni di incomunicabilità, alla firma di alcune linee guida per la traduzione interconfessionale tra la Chiesa cattolica e l’Alleanza biblica universale. Tradurre insieme la Scrittura in lingua materna divenne così un tempo privilegiato per comprendere quanto già unisse i cristiani a partire dal comune patrimonio spirituale, così profondamente radicato nella Scrittura. Proprio alla luce della recezione ecumenica il documento del Vaticano II costituisce una porta attraverso la quale le tradizioni plurisecolari della Chiesa sono state illuminate dal concilio.
L'Osservatore Romano, 17 gennaio 2015.
(Riccardo Burigana) La costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei verbum è una colonna del Vaticano II, per il suo contenuto e per l’iter che ha portato alla sua promulgazione il 18 novembre 1965, cinquant’anni fa, poche settimane prima della conclusione dell’assemblea. Ripercorrere il lungo e articolato processo di redazione del documento significa entrare nel cuore del concilio, toccando alcuni fondamentali nodi teologici: la centralità di Cristo nella rivelazione, il rapporto tra magistero e tradizione, la presenza della Scrittura nella vita quotidiana delle comunità locali, la dimensione ecumenica dell’annuncio del Vangelo.Su questi temi i padri conciliari s’interrogarono a lungo, offrendo risposte non univoche. Ripercorrere la redazione della Dei verbum è quindi importante anche per comprendere orientamenti e scelte della recezione del concilio. Molti temi affrontati durante la redazione del testo giocarono infatti un ruolo non secondario nella processo di rinnovamento della Chiesa.
Di un documento che affrontasse il tema della rivelazione nella prospettiva di un ripensamento della presenza della Bibbia nella vita della Chiesa si era cominciato a parlare all’indomani dell’indizione del concilio ecumenico da parte di Giovanni XXIII. In diverse circostanze il Pontefice aveva posto l’accento dell’importanza della Scrittura nella testimonianza cristiana. Non era certo un tema nuovo per il magistero pontificio, ma con Papa Giovanni assumeva un valore del tutto particolare alla luce non solo dell’indizione del concilio, ma soprattutto del contesto più generale del cristianesimo, dove era in corso un ampio dibattito sulla natura della rivelazione e sull’autorità della Scrittura nella formulazione della dottrina.
Di tutto questo dibattito — al quale la Chiesa cattolica prendeva parte con una pluralità di posizioni già emerse negli ultimi anni del pontificato di Pio XII — si dovette tener conto nella fase preparatoria del Vaticano II, durante la quale gli schemi sulla rivelazione e sulla Scrittura sembravano rispondere a due tipi di istanze. Da una parte emergeva la preoccupazione per la valenza ecumenica di questo dibattito, tanto da ribadire le più recenti formulazioni dogmatiche come se fossero dei limiti invalicabili, oltre i quali c’era solo l’errore. Dall’altra si avvertiva la volontà di esporre in forma positiva e biblica la tradizione plurisecolare della Chiesa cattolica, in modo da uscire da una stagione apologetica ma senza che questo significasse il venire meno all’identità della Chiesa stessa.
Queste posizioni — che tra il 1960 e il 1962 ispirarono la redazione di una pluralità di testi dal De fontibus revelationis e dal De deposito fidei pure custodiendo della Commissione teologica al De verbo Dei del Segretariato per l’unità dei cristiani, solo per citare i più organici — rinviavano a un dibattito molto più ampio che coinvolgeva ambienti cattolici, così come quelli di molte altre Chiese e comunità cristiane, in un confronto dal quale emergevano soluzioni che sembravano alternative e inconciliabili.
In questo clima l’11 ottobre 1962 si aprì il Vaticano II, e sin dalle prime battute dei lavori venne discusso il De fontibus revelationis: il dibattito portò alla luce molte posizioni aprendo, soprattutto dopo le decisioni di Giovanni XXIII in merito allo schema, prospettive come il recupero della Scrittura e delle sue riletture nei secoli tra le fonti privilegiate per la redazione del testo, che divennero centrali nel prosieguo dei lavori conciliari. Per questo le vicende che portarono alla promulgazione della Dei verbum — nelle quali fondamentale fu il ruolo di Paolo VI per giungere all’approvazione del documento — sono importanti per la comprensione del Vaticano II, al di là delle stesse formulazioni finali, che pure affrontavano in termini innovativi alcune questioni; tra queste, almeno due vanno ricordate, soprattutto per l’impatto che ebbero nella recezione del concilio.
La prima riguarda la raccomandazione al ricorso alla Scrittura nella vita quotidiana della Chiesa, dalla riflessione teologica alla catechesi e fino all’omiletica. Con questa formulazione — peraltro già ampiamente condivisa in concilio ben prima della promulgazione della costituzione, al punto da far immaginare un processo di recezione del documento ancora in fase di elaborazione — si aprivano orizzonti nuovi.
Per secoli venerata ma poco frequentata, la Bibbia tornava così a essere compagna fedele nella vita cristiana. Insomma, la Scrittura non era semplicemente la “stampella” alla quale appoggiarsi nelle formulazioni dogmatiche, ma tornava a essere la fonte dalla quale ricevere «acqua viva» per l’annuncio e per la missione della Chiesa, così come in tante occasioni è stato ripetuto, con accenti diversi, da Paolo VI e dai suoi successori. Senza naturalmente dimenticare l’assemblea sinodale del 2008 sulla Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa e l’esortazione apostolica Verbum domini di Benedetto XVI pubblicata nel 2010.
La seconda questione tocca la definizione delle nuove forme di partecipazione della Chiesa cattolica al movimento ecumenico. Infatti, accanto al decreto Unitatis redintegratio sui principi cattolici dell’ecumenismo, la costituzione sulla divina rivelazione si presentava come un testo in grado di far comprendere le peculiarità della dottrina cattolica, sollecitando una traduzione interconfessionale della Scrittura in lingua materna. Questo invito della Dei verbum venne ripreso nei primi anni della recezione del Vaticano II, portando, dopo decenni di incomunicabilità, alla firma di alcune linee guida per la traduzione interconfessionale tra la Chiesa cattolica e l’Alleanza biblica universale. Tradurre insieme la Scrittura in lingua materna divenne così un tempo privilegiato per comprendere quanto già unisse i cristiani a partire dal comune patrimonio spirituale, così profondamente radicato nella Scrittura. Proprio alla luce della recezione ecumenica il documento del Vaticano II costituisce una porta attraverso la quale le tradizioni plurisecolari della Chiesa sono state illuminate dal concilio.
L'Osservatore Romano, 17 gennaio 2015.