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Secondo l’immagine di Cristo sacerdote. Mai separati dal popolo
L'Osservatore Romano
(Marko Ivan Rupnik) Sergej Bulgakov sostiene che il sacerdozio esprime la sintesi convergente dei tria munera di Cristo, re, profeta e sacerdote. L’iconografia del primo millennio ci presenta spesso Cristo crocifisso vestito da sacerdote. In questo modo viene più esplicitamente sottolineata la portata soteriologica del sacrificio pasquale e la sua rivelazione del Dio trinitario.
Il sacerdozio di Cristo è il sacerdozio della volontà, dell’obbedienza per amore filiale. Questo aspetto kenotico, sacrificale, è infatti, secondo la visione di san Giovanni, il lato tragico della stessa dimensione dell’esaltazione, della glorificazione, che è la manifestazione l’una nell’altra delle Persone divine. Il sacrificio che unisce l’umanità al Padre è il sacrificio del Figlio che, vivendo nella carne umana, sa che dietro il velo dell’abisso della morte non c’è il nulla, il vuoto, ma il Padre che lo ha mandato e che lo accoglierà. Secondo i capitoli 8 e 9 della lettera agli Ebrei, il sacrificio sacerdotale che Cristo compie nella sua carne squarcia il velo tra le due tende e diventa egli stesso il passaggio vivente al santuario. Così la luce, l’amore e la misericordia del santuario si versano sull’umanità.
Questa apertura che ci rende liberi di accedere al trono della grazia è il sacerdozio di Cristo, il sacerdozio della nuova alleanza. Le due tende che Mosè ha ricevuto in rivelazione da Dio indicano ancora oggi i due registri: il primo è il corpo di Cristo fino alla sua morte, il secondo è il suo corpo risorto con il quale entra nel santuario eterno, che diventa la casa dalle molte dimore. Allo stesso modo abbiamo due registri della Chiesa: uno nella storia e uno nella gloria. È il sacerdozio di Cristo che, all’interno della Chiesa, con la liturgia, tiene aperto questo passaggio e il flusso di vita che si versa sull’umanità unendola, nella figliolanza, al Padre.
Noi sacerdoti della nuova alleanza, noi sacerdoti della Chiesa siamo sacerdoti di quest’unico sacerdozio di Cristo. Il perno del sacerdozio cristiano è proprio il passaggio tra le due tende, che è esattamente l’opera del Cristo sacerdote.
La lettera agli Ebrei descrive il sacerdozio di Cristo secondo l’ordine di Melchisedek, in un modo che costituisce una radicale novità rispetto al sacerdozio di Levi. Oltre al sacerdozio della volontà e del sacrificio di sé, la lettera presenta un’altra discontinuità rispetto ai sacerdoti dell’antica alleanza. Questi ultimi erano separati dal popolo con una lunga serie di prescrizioni che imponevano una distanza da mantenere per custodire la purità rituale. I capitoli 2, 4 e 5 della lettera agli Ebrei presentano invece Cristo come sacerdote costituito, sì, da Dio, ma completamente unito all’umanità, senza nessuna distanza. Da Figlio di Dio, ma allo stesso tempo come vero uomo, vive una così radicale solidarietà con l’uomo da partecipare alla morte e alla paura della morte di ogni uomo. È la morte, infatti, il luogo della sua solidarietà. E lui, con la sua morte, libererà gli uomini dal demonio che li tiene in schiavitù proprio con la paura della morte. La morte ha potere perché relativizza tutto e azzera ogni valore, ogni esistenza. Ma Cristo la distrugge proprio dandole il senso dell’offerta di sé per amore, la consegna nelle mani dell’umanità come dono supremo al Padre. E, con questo, la morte è sconfitta.
Cristo sacerdote, rendendosi simile ai fratelli sino a soffrire tutto ciò che riguarda la morte, è diventato un «sacerdote misericordioso e fedele nelle cose che riguardano Dio», non per qualche eroismo, ma «per espiare i peccati del popolo» e per liberare l’uomo. Per questo Cristo come sacerdote, a differenza dei sacerdoti di Levi, «sa compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa a somiglianza di noi, escluso il peccato». Lui poteva essere solidale e unito all’uomo proprio perché era senza peccato, dato che è il peccato a separare e a dividere. Ha partecipato così pienamente al dramma dell’umanità segnata dal peccato e dalla morte che durante la sua vita terrena pregava e supplicava con forti grida e lacrime. Grida e lacrime che, come dice Albert Vanhoye, costituiscono qui la sua liturgia. Il Cristo stesso supplica il Padre di liberarlo dalla morte ed è esaudito: la morte rimane alle sue spalle e il Padre lo raccoglie da risorto nel santuario. Cristo sacerdote è presentato come “reso perfetto” tramite l’obbedienza e il patimento. La sua perfezione non è dunque una perfezione formale, ma quella della Pasqua.
Noi sacerdoti di quest’unico sacerdozio di Cristo siamo dunque chiamati a essere uniti al popolo, a conoscere sulla nostra pelle le angosce, le sofferenze, le prove dell’umanità per essere veramente, nell’umanità di Cristo, la rivelazione della misericordia. La storia mostra un’unica, ma terribile tentazione: quella di tornare a separarci dal popolo, per ricostituire un sacerdozio isolato e dunque tornare al sacerdozio di Levi. Il sacerdote di Cristo è chiamato dalla Chiesa per la Chiesa. Siamo chiamati dalla Chiesa per servire nella storia il sacerdozio di Cristo, per mantenere dunque, come perno dei tria munera il sacerdozio, in modo che la dimensione profetica non si isoli diventando un mero insegnamento o una semplice scuola, ma sia vissuta in modo sacerdotale, come dono di sé. E la regalità non si separi dal sacerdozio acquistando i tratti dei regni di questo mondo, ma venga vissuta in modo sacerdotale, dove la croce è l’insegna regale e il trono del potere.
Un sacerdozio vissuto secondo questa partecipazione al sacerdozio di Cristo richiede una formazione ecclesiale. È la Chiesa, la comunità cristiana, il corpo del Cristo ecclesiale a formare il cuore, la mentalità e il tratto pastorale del sacerdote. Le istituzioni che tendono a isolarsi in loro stesse non possono essere luoghi dove maturano i sacerdoti. A questo proposito mi piace citare una pagina del diario di Alexander Schmemann scritta dopo una giornata di formazione del clero, dove Schmemann, ricordando che i relatori erano molto preparati, di un grande livello accademico, agili nel comunicare i loro contenuti, commenta che, anche se ciò che dicevano poteva essere vero, certamente non avrebbe mai formato pastori e padri. È proprio su quest’aspetto che credo il nostro tempo ci chieda un ripensamento serio. Dato che nella nostra tradizione latina il sacerdozio è legato al celibato, è necessario tener conto che il celibato è una parte della diade “verginità-maternità”, e che il celibe si compie nel padre, come la vergine nella madre.
In questa direzione ci orienta il magistero di Papa Francesco: «Siate pastori accoglienti, in cammino con il vostro popolo, con affetto, con misericordia, con dolcezza del tratto e fermezza paterna, con umiltà e discrezione, capaci di guardare anche ai vostri limiti e di avere una dose di buon umorismo. Questa è una grazia che dobbiamo chiedere, noi vescovi. Tutti noi dobbiamo chiedere questa grazia: Signore, dammi il senso dell'umorismo. Trovare la strada di ridere di se stessi, prima, e un po’ delle cose. E rimanete con il vostro gregge!» (Discorso ai partecipanti al convegno per i nuovi vescovi promosso dalla Congregazione per i vescovi e dalla Congregazione per le Chiese orientali, 19 settembre 2013).
L'Osservatore Romano, 18 novembre 2015.