Italia
Firenze in attesa raccontata dal cardinale Betori. Fede e carità all’ombra di Giotto
L'Osservatore Romano
Firenze in attesa raccontata dal cardinale Betori. Fede e carità all’ombra di Giotto
L'Osservatore Romano
(Nicola Gori) Un «condominio solidale» nel quartiere popolare di Novoli, con sedici appartamenti, un centro per anziani, una struttura di accoglienza per le emergenze abitative e un nido per bambini. È la «casa della carità» che a Firenze — meta insieme con Prato della visita che Francesco compirà martedì 10 novembre — resterà come segno tangibile del convegno ecclesiale nazionale, in programma dal 9 al 13, e della presenza del Pontefice. Ne parla il cardinale arcivescovo Giuseppe Betori in questa intervista al nostro giornale, sottolineando l’impegno dell’arcidiocesi per promuovere un nuovo umanesimo e per suscitare forme sempre aggiornate di carità in risposta ai bisogni del territorio.
Quale città troverà Papa Francesco ad accoglierlo?
Ogni incontro del Pontefice con i suoi figli è anzitutto fonte di gioia. L’attesa è quindi alta tra i fedeli cattolici e in genere tra i cittadini. Lo mostra anche il gesto compiuto dall’amministrazione comunale, che ha voluto preparare il convegno ecclesiale nazionale e la visita del Papa con una serie di incontri in cui sono stati approfonditi i temi e gli scopi di questi eventi. L’attenzione rivolta ai contenuti dell’incontro del Papa con la città, che si unisce ovviamente all’impegno per una dignitosa accoglienza dal punto di vista organizzativo, mi sembra un segnale di particolare valore. Non è solo l’avvenimento in sé che attira l’attenzione ma anche il suo significato. Sono certo che la consapevolezza della eccezionale testimonianza che la persona e il magistero del Papa sono oggi per la Chiesa e per il mondo non mancherà di trovare menti e cuori aperti in tutti i fiorentini.
Perché la scelta di Firenze quale sede del convegno della Chiesa italiana?
La collocazione del convegno decennale della Chiesa italiana nelle sue precedenti tre edizioni, dopo il primo appuntamento romano, ha visto avvicendarsi luoghi appartenenti alle tre zone geografiche del Paese: centro, sud e nord. Ora era il turno del centro e sono stato lieto di offrire Firenze come una possibile città ospitante, trovando il consenso dei confratelli del consiglio permanente della conferenza episcopale. Dalla scelta di Firenze alla proposta di declinare il tema del convegno sul versante dell’umanesimo è stato un passaggio quasi naturale, sancito dell’assemblea dei vescovi italiani. La scelta, nel luogo e nel tema, ci onora e ovviamente ci responsabilizza, sia nell’offrire un’accoglienza fraterna ed efficiente, sia nell’aiutare a scoprire nelle radici cristiane del primo umanesimo un importante riferimento per il nuovo umanesimo che oggi siamo chiamati a delineare nel riferimento fondamentale in Gesù Cristo.
Come vive la comunità ecclesiale questo nuovo umanesimo?
Il tema del nuovo umanesimo, così come il convegno lo definisce in rapporto alla persona di Gesù Cristo, interroga la comunità ecclesiale oggi in due fondamentali direzioni. La prima è quella di una disincantata e coraggiosa presa di coscienza delle tante forme di disumanizzazione che, a livello personale e sociale, feriscono l’umanità di oggi, dentro di noi e attorno a noi, vicino a noi e nelle periferie geografiche, sociali ed esistenziali che invocano il nostro sguardo amorevole e la nostra presenza misericordiosa. L’altra direzione è quella di dare evidenza alle esperienze di umanità compiute già in atto nel mondo e da avviare come segni di speranza e prefigurazioni di un futuro redento. Tali esperienze non mancano, né ci manca lo sguardo e il cuore per progettarle. Ma rischiano di restare nascoste alla coscienza di molti, soffocati come siamo da una comunicazione non sempre attenta al bene. C’è poi da raccogliere tali esperienze per dare forma a una visione unitaria dell’umano che le integri secondo una compiuta edificazione della persona e del bene comune. Quest’ultimo compito deve radicarsi nel reale per non tradursi in pericolose forme ideologiche, ma non è meno urgente per sanare immagini dell’umano oggi divulgate e prive di sostanza di verità e quindi di bene.
Tra gli appuntamenti del Papa c’è il pranzo con i poveri della mensa di San Francesco. Quali realtà si occupano dei fratelli più bisognosi ed emarginati?
La tradizione di presa in carico dei bisogni delle persone è una delle eredità più positive della identità fiorentina. Essa ha un suo riferimento alto nella confraternita della Misericordia, che proprio qui nacque nel 1244, come espressione della lotta all’eresia e quindi come modo per mostrare la fede nella sua concreta proiezione storica e sociale. Questo legame tra fede e carità è essenziale per comprendere la natura della confraternita e di ogni altro gesto e organizzazione di esercizio della carità. Come pure è essenziale prendere atto che questo seme piantato nel cuore della comunità cristiana ha dato frutti anche al di fuori di essa, nelle diverse organizzazioni di solidarietà, anche laiche, che vivono in terra toscana. Ogni epoca ha poi visto scaturire dal cuore della Chiesa fiorentina nuove iniziative: tra queste non posso dimenticare l’opera Madonnina del Grappa fondata dal servo di Dio don Giulio Facibeni. Oggi poi un ruolo fondamentale nella diocesi è svolto dalla Caritas, con molteplici iniziative e strutture. L’ultima sarà anche il segno che il convegno lascerà a Firenze: la casa della Carità, questo condominio solidale con sedici appartamenti, un centro diurno per anziani, un centro di accoglienza per emergenze abitative, un nido per bambini in aiuto alle famiglie, spazi e attività per il quartiere.
Cosa resta alla Chiesa fiorentina dell’eredità di personaggi come il cardinale Elia Dalla Costa, don Facibeni e Giorgio La Pira?
Ogni eredità costituisce un monito e una responsabilità. Questo vale in particolare per le eredità spirituali, come quelle che la metà del Novecento ha lasciato a Firenze e alla sua Chiesa. Il monito si traduce nel richiamo che i grandi di quell’epoca continuano a esercitare nel cuore dei fiorentini con riferimento ai fondamenti della vita cristiana: una fede più salda e sempre fortemente ecclesiale, una carità vissuta e costantemente attenta ai nuovi poveri, una speranza che innalzi a grandi ideali e sproni oltre le contingenze spesso faticose del presente. Di questo non c’è chi non sia cosciente a Firenze, anche se non posso nascondere che la percezione della nostra inadeguatezza rispetto a questi alti modelli di santità a volte rischia di far confondere la piccolezza, la povertà nostra con una impossibilità a farsene discepoli che può sfiorare lo smarrimento. Ma la strada che questi grandi ci hanno mostrato è una risorsa non da poco per noi e un richiamo continuo e non perderci in piccoli orizzonti. Qualche colpo d’ala peraltro, qua e là, non manca e questo ci incoraggia.
Firenze è una delle capitali mondiali dell’arte. Si inserisce in questo senso l’apertura del nuovo museo del duomo?
Il tema dell’arte è il vanto e il cruccio di questa città. Concentrazione come poche o nessuna nel mondo di bellezza ma anche pericolosamente vicina ad appiattirsi su una “disneyland” dell’arte. Sta proprio qui la svolta della vocazione di Firenze per il futuro: rifiutare di essere percepita solo come città d’arte e proporsi come città di testimonianza di vero umanesimo. Perché fin quando l’arte è sentita solo come la percezione estetica delle forme e non invece come la traduzione in forme estetiche di un contenuto di visione dell’umano, si rischia di restare vittime di una fruizione più prona alle regole economiche che al rispetto degli uomini, cittadini e visitatori. Il nuovo museo del duomo è una scommessa in tal senso. Mette fine a una esposizione di forme avulse dalla loro storia e propone una ricontestualizzazione delle opere nella loro radice temporale e di pensiero, in modo che tornino a parlare a quanti le guardano. E la loro non potrà che essere una parola di fede, perché dalla fede hanno tratto la loro origine e la formazione della fede è stata il loro scopo.
L'Osservatore Romano, 8 novembre 2015
Quale città troverà Papa Francesco ad accoglierlo?
Ogni incontro del Pontefice con i suoi figli è anzitutto fonte di gioia. L’attesa è quindi alta tra i fedeli cattolici e in genere tra i cittadini. Lo mostra anche il gesto compiuto dall’amministrazione comunale, che ha voluto preparare il convegno ecclesiale nazionale e la visita del Papa con una serie di incontri in cui sono stati approfonditi i temi e gli scopi di questi eventi. L’attenzione rivolta ai contenuti dell’incontro del Papa con la città, che si unisce ovviamente all’impegno per una dignitosa accoglienza dal punto di vista organizzativo, mi sembra un segnale di particolare valore. Non è solo l’avvenimento in sé che attira l’attenzione ma anche il suo significato. Sono certo che la consapevolezza della eccezionale testimonianza che la persona e il magistero del Papa sono oggi per la Chiesa e per il mondo non mancherà di trovare menti e cuori aperti in tutti i fiorentini.
Perché la scelta di Firenze quale sede del convegno della Chiesa italiana?
La collocazione del convegno decennale della Chiesa italiana nelle sue precedenti tre edizioni, dopo il primo appuntamento romano, ha visto avvicendarsi luoghi appartenenti alle tre zone geografiche del Paese: centro, sud e nord. Ora era il turno del centro e sono stato lieto di offrire Firenze come una possibile città ospitante, trovando il consenso dei confratelli del consiglio permanente della conferenza episcopale. Dalla scelta di Firenze alla proposta di declinare il tema del convegno sul versante dell’umanesimo è stato un passaggio quasi naturale, sancito dell’assemblea dei vescovi italiani. La scelta, nel luogo e nel tema, ci onora e ovviamente ci responsabilizza, sia nell’offrire un’accoglienza fraterna ed efficiente, sia nell’aiutare a scoprire nelle radici cristiane del primo umanesimo un importante riferimento per il nuovo umanesimo che oggi siamo chiamati a delineare nel riferimento fondamentale in Gesù Cristo.
Come vive la comunità ecclesiale questo nuovo umanesimo?
Il tema del nuovo umanesimo, così come il convegno lo definisce in rapporto alla persona di Gesù Cristo, interroga la comunità ecclesiale oggi in due fondamentali direzioni. La prima è quella di una disincantata e coraggiosa presa di coscienza delle tante forme di disumanizzazione che, a livello personale e sociale, feriscono l’umanità di oggi, dentro di noi e attorno a noi, vicino a noi e nelle periferie geografiche, sociali ed esistenziali che invocano il nostro sguardo amorevole e la nostra presenza misericordiosa. L’altra direzione è quella di dare evidenza alle esperienze di umanità compiute già in atto nel mondo e da avviare come segni di speranza e prefigurazioni di un futuro redento. Tali esperienze non mancano, né ci manca lo sguardo e il cuore per progettarle. Ma rischiano di restare nascoste alla coscienza di molti, soffocati come siamo da una comunicazione non sempre attenta al bene. C’è poi da raccogliere tali esperienze per dare forma a una visione unitaria dell’umano che le integri secondo una compiuta edificazione della persona e del bene comune. Quest’ultimo compito deve radicarsi nel reale per non tradursi in pericolose forme ideologiche, ma non è meno urgente per sanare immagini dell’umano oggi divulgate e prive di sostanza di verità e quindi di bene.
Tra gli appuntamenti del Papa c’è il pranzo con i poveri della mensa di San Francesco. Quali realtà si occupano dei fratelli più bisognosi ed emarginati?
La tradizione di presa in carico dei bisogni delle persone è una delle eredità più positive della identità fiorentina. Essa ha un suo riferimento alto nella confraternita della Misericordia, che proprio qui nacque nel 1244, come espressione della lotta all’eresia e quindi come modo per mostrare la fede nella sua concreta proiezione storica e sociale. Questo legame tra fede e carità è essenziale per comprendere la natura della confraternita e di ogni altro gesto e organizzazione di esercizio della carità. Come pure è essenziale prendere atto che questo seme piantato nel cuore della comunità cristiana ha dato frutti anche al di fuori di essa, nelle diverse organizzazioni di solidarietà, anche laiche, che vivono in terra toscana. Ogni epoca ha poi visto scaturire dal cuore della Chiesa fiorentina nuove iniziative: tra queste non posso dimenticare l’opera Madonnina del Grappa fondata dal servo di Dio don Giulio Facibeni. Oggi poi un ruolo fondamentale nella diocesi è svolto dalla Caritas, con molteplici iniziative e strutture. L’ultima sarà anche il segno che il convegno lascerà a Firenze: la casa della Carità, questo condominio solidale con sedici appartamenti, un centro diurno per anziani, un centro di accoglienza per emergenze abitative, un nido per bambini in aiuto alle famiglie, spazi e attività per il quartiere.
Cosa resta alla Chiesa fiorentina dell’eredità di personaggi come il cardinale Elia Dalla Costa, don Facibeni e Giorgio La Pira?
Ogni eredità costituisce un monito e una responsabilità. Questo vale in particolare per le eredità spirituali, come quelle che la metà del Novecento ha lasciato a Firenze e alla sua Chiesa. Il monito si traduce nel richiamo che i grandi di quell’epoca continuano a esercitare nel cuore dei fiorentini con riferimento ai fondamenti della vita cristiana: una fede più salda e sempre fortemente ecclesiale, una carità vissuta e costantemente attenta ai nuovi poveri, una speranza che innalzi a grandi ideali e sproni oltre le contingenze spesso faticose del presente. Di questo non c’è chi non sia cosciente a Firenze, anche se non posso nascondere che la percezione della nostra inadeguatezza rispetto a questi alti modelli di santità a volte rischia di far confondere la piccolezza, la povertà nostra con una impossibilità a farsene discepoli che può sfiorare lo smarrimento. Ma la strada che questi grandi ci hanno mostrato è una risorsa non da poco per noi e un richiamo continuo e non perderci in piccoli orizzonti. Qualche colpo d’ala peraltro, qua e là, non manca e questo ci incoraggia.
Firenze è una delle capitali mondiali dell’arte. Si inserisce in questo senso l’apertura del nuovo museo del duomo?
Il tema dell’arte è il vanto e il cruccio di questa città. Concentrazione come poche o nessuna nel mondo di bellezza ma anche pericolosamente vicina ad appiattirsi su una “disneyland” dell’arte. Sta proprio qui la svolta della vocazione di Firenze per il futuro: rifiutare di essere percepita solo come città d’arte e proporsi come città di testimonianza di vero umanesimo. Perché fin quando l’arte è sentita solo come la percezione estetica delle forme e non invece come la traduzione in forme estetiche di un contenuto di visione dell’umano, si rischia di restare vittime di una fruizione più prona alle regole economiche che al rispetto degli uomini, cittadini e visitatori. Il nuovo museo del duomo è una scommessa in tal senso. Mette fine a una esposizione di forme avulse dalla loro storia e propone una ricontestualizzazione delle opere nella loro radice temporale e di pensiero, in modo che tornino a parlare a quanti le guardano. E la loro non potrà che essere una parola di fede, perché dalla fede hanno tratto la loro origine e la formazione della fede è stata il loro scopo.
L'Osservatore Romano, 8 novembre 2015